Stamattina mi sono svegliata molto presto. E vista la giornata importante che ci aspetta non sono più riuscita ad addormentarmi. Mi sono alzata, ho preso la mia terapia e ho sistemato la mia brandina cercando di non svegliare Giulia. Ho letto un po’ e verso le sette sono scesa per fare colazione. Ho percorso i cinquanta metri che separano la clinica dal bar, con passo spedito. A differenza delle altre mattine c’era poca gente in giro. Di solito ci sono molti studenti, tante mamme con bambini, uomini in giacca cravatta e medici in camice che attraversano la strada da una clinica all’altra. In questo angolino di Milano, tra i palazzi, i padiglioni del Policlinico, l’edicola e un parco che in questa stagione è dipinto con i colori dell’autunno, ho trovato il mio bar. Mi piace entrare in un locale e considerarlo un po’ mio. Mi piace quando i baristi, anche se non sanno come ti chiami, sanno che sei lì perché la tua bimba è ricoverata in ospedale e sanno già quello che vuoi ordinare e come lo vuoi. Forse perché anche io sono una barista così. Mi piace anticipare i miei clienti abituali. Trovo che sia un’attenzione in più. Caffè macchiato, macchiato freddo, zucchero di canna, caffè leggermente lungo, acqua gasata a parte, cappuccino senza schiuma, con latte di soia o ginseng piccolo. E questo team di baristi milanesi ci sa proprio fare dietro al bancone. Ognuno al suo posto, una bella sincronia e collaborazione. Ma soprattutto un saluto e un sorriso che sono gli ingredienti fondamentali di una colazione o anche solo di una pausa caffè.
Ora sono qui, davanti a questa porta chiusa aspettando la mia Giulia.
Davanti a porte come questa dove tante volte mi aspettano la mia sorellina e le persone che mi vogliono bene. Un esame, un intervento, un responso. Dietro quella porta succede sempre qualcosa di importante. E per chi rimane fuori resta sempre la speranza mista a timore. Resta l’incognita e il senso di impotenza. E oggi io sono qui ad aspettare una delle persone più importanti della mia vita. La mia Giulia. Ieri sera era molto emozionata e ha fatto fatica ad addormentarsi. Mi sono sdraiata nel suo lettino e l’ho abbracciata finché non è crollata. Non avrei mai pensato di essere paziente e mamma di una piccola paziente. Mi piace molto quando le infermiere della pediatria ti chiamano mamma invece che signora. Ti fanno sentire accolta. È un gesto di tenerezza anche verso i piccoli pazienti. La mamma fa parte di questo mondo. Di questa piccola parte di ospedale. Molto colorato ma sempre di ospedale si tratta. E loro lo capiscono bene. Come ogni genitore, quando un figlio soffre vorresti poter prendere il suo posto. Se potessi le avrei risparmiato questi venti giorni di ospedale e soprattutto la biopsia di oggi. Ma più di tutto vorrei poter promettere a Giulia Gaia e Alessandro che ci sarò sempre. Davvero sempre. A volte in questa lunga degenza lontano da casa sono arrivati momenti di sconforto. Mi mancano infinitamente i miei bimbi Gaia e Alessandro. E anche Cristian e la nostra casa. Ma il mio posto adesso è qui. Perché Giulia appena uscita cercherà il mio sguardo. Cercherà la sua mamma. Perché io ora sono qui. E ho tutta l’intenzione di rimanerci il più a lungo possibile. Perché la vita è qui e adesso. Ogni giorno. Anche qui. Soprattutto qui. Tra le mura di un ospedale dove a volte le persone muoiono. Ma dove molto altre volte si torna a vivere. Si riprende a respirare dopo un periodo in apnea. Si torna a ridere. E la tensione di queste lunghe giornate si scioglie in un abbraccio.
Forza!!!! Un abbraccione a tutte due !!!!😘😘😘😘
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Una preghiera e un abbraccio per voi
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